Bioraffinerie troppo dipendenti dall’olio da cucina usato (Uco) proveniente dalla Cina. A lanciare l’allarme è un report commissionato dalla Federazione europea per i trasporti e l’ambiente alla società di ricerca e consulenza Ce Delft, secondo cui Pechino copre da sola il 34 per cento delle importazioni Ue di Uco. Rispetto all’olio vergine, con cui si producono i biocarburanti di prima generazione, l’olio di scarto utilizzato per produrre i biocarburanti di seconda generazione ha un costo più elevato, però ha il vantaggio che il suo utilizzo non comporta la sottrazione di terreni alla produzione di alimenti. Si tratta, insomma, di una soluzione circolare a tutto tondo. Ma non è l’unica: oggi per ridurre la dipendenza dalla Cina la produzione di biocarburanti in Europa strizza l’occhio per esempio anche agli oli di alghe e ai pneumatici fuori uso. Poi ci sono gli e-fuel, carburanti sintetici climaticamente neutri ottenuti combinando idrogeno verde e anidride carbonica catturata nell’ambiente, che hanno calamitato l’interesse di grandi case automobilistiche, come Porsche, ma anche dell’Unem, l’Unione energie per la mobilità che ha sostituito l’ex Unione petrolifera.
L’ITER
«Le nostre raffinerie hanno le tecnologie e le competenze per evolversi nella produzione di questi nuovi carburanti e si sono avviate da tempo su questa strada», spiega il presidente di Unem, Claudio Spinaci. Per l’ex Up la diffusione dei carburanti low carbon deve avere la precedenza. «La raffinazione svolge un ruolo centrale nella transizione energetica, con particolare riguardo alla mobilità che attualmente è coperta per oltre il 92 per cento dai prodotti di origine petrolifera. Noi stiamo lavorando sullo sviluppo di carburanti liquidi a basso o nullo contenuto di carbonio, utilizzabili nelle attuali flotte, che potranno garantire una mobilità decarbonizzata in tutti i segmenti del trasporto, con benefici immediati in termini di riduzione delle emissioni di Co2», prosegue il presidente di Unem. Tra questi rientrano appunto i biocarburanti, ma anche i carburanti sintetici derivanti dalla sintesi tra Co2 e idrogeno. «Abbiamo appena avviato, in collaborazione con Innovhub e il Politecnico di Milano, uno studio di fattibilità per la realizzazione di un impianto dimostrativo per la produzione di e-fuel, così da poterne valutare al meglio i processi, le caratteristiche chimico-fisiche ed utilizzarli in prove sperimentali su strada», prosegue Claudio Spinaci. Che però chiede di risolvere in tempi brevi i nodi strutturali del settore per favorire la transizione.
COMPETITIVITÀ
Non solo: spinge affinché venga definito al più presto un quadro di regole neutrali, a partire dal calcolo delle emissioni di Co2 delle auto lungo l’intero ciclo di vita, per arrivare all’adozione di un Carbon border adjustment mechanism che integri e rafforzi gli effetti dell’Ets, il sistema di scambio di quote di emissione dell’Ue. «L’industria della raffinazione è tra i settori maggiormente esposti alla competitività internazionale e ha quindi bisogno di misure efficaci per garantire una protezione adeguata contro il rischio di rilocalizzazione delle emissioni di carbonio», conclude il presidente di Unem. Per diffondere a livello comunitario la conoscenza e la diffusione dei carburanti a basso o nullo quantitativo di carbonio ha anche visto la luce una piattaforma ad hoc, organizzata da FuelsEurope, associazione che rappresenta le attività di quaranta realtà che in Europa operano nel comparto della raffinazione dei carburanti, e a cui ha aderito la stessa Unem.
I DATI
In Italia il comparto fattura 100 miliardi di euro l’anno e conta oltre 150 mila occupati tra diretti e indiretti. In tutto sono 13 le raffinerie, di cui due bio, presenti sul territorio. Eni, da noi, sta facendo da apripista. Il Cane a sei zampe ha ripensato completamente le raffinerie tradizionali di Venezia e Gela, convertendole alla lavorazione di materie prime di origine biologica. La bioraffineria di Venezia è stata la prima raffineria tradizionale al mondo a essere riconvertita in bioraffineria. Qui, dal 2014, vengono trattate circa 360mila tonnellate di materia prima di origine biologica all’anno. Dal 2024, grazie a un ulteriore upgrade dell’impianto, la capacità di lavorazione sarà di 560mila tonnellate all’anno, con una sempre maggiore quota derivante da scarti della produzione alimentare, come oli usati, grassi animali e altri sottoprodotti avanzati. Entro il 2023, inoltre, le bioraffinerie di Eni saranno palm oil free: nei cicli produttivi verranno utilizzati al posto dell’olio di palma non solo cariche alternative, come gli oli alimentari usati e di frittura, ma anche oli da alghe e rifiuti e materiale lignocellulosico. Un’ulteriore linea di sviluppo nel settore dei carburanti avanzati prodotti dagli scarti riguarda infine la possibilità di ottenere olio da pirolisi dal trattamento di pneumatici fuori uso (Pfu). Questo mese Eni ha siglato un accordo con Ecopneus finalizzato proprio a valutare le tecnologie più idonee per valorizzare i Pfu e ottenere prodotti energetici dai vecchi pneumatici.
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