Maria Chiara Carrozza, presidente del Cnr: «Più sviluppo e lavoro con l'hi-tech»

Dal 1923, anno della sua fondazione, il Consiglio Nazionale delle Ricerche ha avuto una ventina di presidenti, tra cui Guglielmo Marconi. Ma fino a oggi tra questi non c’era mai stata una donna. Per questo la nomina di Maria Chiara Carrozza, 55 anni, già Ministro dell’istruzione nel governo Letta del 2013-14, è particolarmente significativa. Lo è perché avviene in un periodo in cui l’espressione delle potenzialità della tecnologia e della scienza sono ai massimi storici. Lo è anche perché Carrozza è una delle più grandi esperte italiane di neurorobotica, specializzazione che ha coltivato in molti anni di ricerca alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e che rappresenta una delle discipline potenzialmente rivoluzionarie, soprattutto nell’ambito della sanità. Lei è la prima donna presidente del Cnr.

Qualcosa sta cambiando davvero in termini di parità di genere?

A giudicare dalle statistiche non si direbbe: le donne che scelgono discipline Stem (tecnologiche e scientifiche, ndr) sono ancora in netta minoranza, e quelle che ricoprono incarichi di responsabilità ancora meno. «Come donna sono orgogliosa e onorata di essere stata nominata dalla ministra Messa, che stimo: è un bel simbolo dell’empowerment femminile. Però ora vorrei passare avanti e lavorare tutti assieme, donne e uomini. Per quanto riguarda i laureati Stem, non sono in numero sufficiente e mancano soprattutto le ragazze: abbiamo bisogno di persone formate nelle scienze in numero equilibrato tra i due sessi, sempre a partire dal presupposto di un’adeguata preparazione. Dobbiamo far capire ai giovani che studiando si acquisiscono strumenti per cambiare il futuro».

Quali sono le frontiere sulle quali la ricerca dovrebbe concentrarsi oggi?

«La transizione digitale e quella ecologica, la salute e la formazione. Il PNRR offre a innovazione e ricerca scientifica un’opportunità importante, direi storica, e tutto il Paese ne deve essere consapevole. La scienza è sempre più al servizio dell’umanità, in particolare di chi è solo, di quelle fragilità che la pandemia ha reso ancor più evidenti e dolorose, per questo dev’essere sostenuta con fiducia. Se lavoriamo tutti assieme, possiamo creare un laboratorio di soluzioni tecnologiche e organizzative, un nuovo umanesimo che abbia l’evidenza scientifica come metodo e il benessere delle persone come obiettivo».

E il suo Cnr da dove inizierà? Che obiettivi si è prefissata?

«La fase di ascolto e studio è ancora in corso, la complessità del Consiglio nazionale delle ricerche non è banale da gestire. Ho incontrato il cda, i direttori dei sette Dipartimenti, sto incontrando quelli degli 88 Istituti. È stato bandito l’avviso pubblico per il direttore generale, abbiamo attivato le procedure per rinnovare il Consiglio scientifico e dobbiamo nominare alcuni direttori d’istituto e dipartimento. Dovremo poi aggiornarci da un punto di vista operativo e amministrativo, rendere la conduzione dei progetti più agile, anche per trovare spazio nel PNRR: l’Ente ha tutte le possibilità di contribuire alla realizzazione degli aspetti esecutivi e delle riforme del Piano. Dal punto di vista disciplinare, certamente, possiamo assumere un ruolo fondamentale nell’emergenza sanitaria, grazie alla nostra pluralità di saperi che fanno massa critica».

Ma i modelli di oggi sono aziende private che poco hanno a che vedere con il modello della ricerca scientifica per il bene comune. Non teme che paradossalmente, nel momento di massimo splendore della scienza, un istituto pubblico come quello che lei guida possa restare indietro?

«No, anzi: tutti i prodotti nuovi e innovativi come i vaccini non ci sarebbero senza la ricerca fondamentale svolta qualche anno fa. Se non si investe nella ricerca fondamentale, non avremo i frutti della traslazione verso il mercato e verso la pratica clinica. Tutto dipende dagli investimenti e da quanto si vuole far maturare il settore nel suo complesso. In Italia su questi temi scontiamo un certo ritardo: eravamo molto progrediti per gli spin-off, ma poi sono stati fatti dei passi indietro per un eccesso di normazione».

A proposito del tasto dolente dei finanziamenti. Ci sono degli esempi di sinergie pubblico-privato che stanno dando dei frutti. Qual è la sua ricetta? Il Cnr ha già avviato alcune collaborazioni con altri istituti di ricerca, come l’Enea.

«Poter contare su un ecosistema favorevole all’innovazione è importante quanto la presenza di forti investimenti. La consapevolezza è che si debbano operare investimenti concreti che interessino tutta la filiera: ricerca di base, competenze dei ricercatori, tecnologia. Come presidente intendo guidare il Cnr verso la sua missione su tutti e tre i pilastri della ricerca: l’eccellenza scientifica, l’innovazione sociale e la leadership industriale». Nell’ultimo anno la tecnologia è entrata a far parte delle nostre vite in modo insostituibile, dalla comunicazione al lavoro.

Cosa le è piaciuto di più di questo aspetto e cosa invece è da evitare in futuro?

«La tecnologia viene spesso interpretata come qualcosa di disumanizzante, se ne paventano soprattutto i rischi per l’occupazione, in un’ottica neo-luddista, senza cogliere invece le prospettive di sviluppo collegate all’innovazione. Direi che dobbiamo aspettarci una trasformazione non solo tecnologica e applicativa, ma culturale ed esistenziale. Il rinnovamento non può riguardare solo il campo manifatturiero o la fruizione di beni e servizi, deve entrare nelle nostre case, investire la domotica, la pubblica amministrazione, la sanità, l’istruzione».

 

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