Ogni italiano “produce” in media venti chilogrammi di fanghi da depurazione: scarti che, allo stato attuale, devono essere smaltiti in discarica o negli inceneritori. Hbi punta a ridurre questa quota a non più di due chilogrammi, e anche meno in futuro, fino ad azzerarla quasi del tutto. Non solo, il sistema messo a punto dalla società trevigian-bolzanina consente di recuperare il “tesoro” nascosto nei residui della depurazione dei reflui fognari, estraendo acqua pulita, energia e sostanze da reimpiegare in altre lavorazioni. Il tutto grazie ad una sorta di tecnologica “pentola a pressione”. «Ci proponiamo di trasformare i comuni depuratori delle acque in bioraffinerie poligenerative, in grado di produrre materiali ad alto valore aggiunto, rinnovabili e sostenibili, nella direzione dell’economia circolare», sottolineano i due fondatori Daniele Basso e Renato Pavanetto.
IL TRATTAMENTO
Il cuore del progetto sta nella combinazione di due procedimenti termochimici. «Due processi di per sé semplici, ma singolarmente non efficaci – spiega Basso, laurea e dottorato di ricerca in ingegneria ambientale all’università di Trento e un master in business administration alla Bocconi, ad della società – Li abbiamo accoppiati in maniera innovativa, raggiungendo elevati livelli di performance e, soprattutto, di sostenibilità. Non vengono inseriti catalizzatori, agenti chimici, alghe o batteri: in estrema sintesi, si basa su pressione, temperatura e acqua. Una specie di bollitura». Gli scarti finali del trattamento della depurazione dei reflui vengono ridotti del 90%. Per capire la portata dell’operazione, bastano un paio di numeri: in Europa si accumulano 50 milioni di tonnellate di fanghi ogni anno, nel mondo 200 milioni di tonnellate, in costante crescita come i costi di smaltimento, oggi intorno a 200 euro a tonnellata. L’Italia, per giunta, è stata sottoposta a varie procedure di infrazione, da parte delle autorità europee sulla materia. La tecnologia Hbi è autosufficiente dal punto di vista energetico e non genera emissioni, né odori. In più, permette di estrarre sostanze “pregiate”, come ammoniaca, fosforo e altri nutrienti che, raffinati, possono essere riutilizzati, ad esempio, in agricoltura.
Nonché l’85% dell’acqua di cui la melma è impregnata. Il (poco) composto rimanente al termine del processo è sterilizzato, eliminati la carica batterica e virale e i resti di farmaci od ormoni. Date le dimensioni relativamente compatte, l’impianto può essere facilmente installato in un depuratore già esistente. Nata a Treviso nel 2016, Hbi (Human bio innovation) porta avanti le attività di ricerca e di sviluppo del business all’interno di Noi Techpark, il parco scientifico e tecnologico dell’Alto Adige, mentre la parte di progettazione, ingegneria e prototipazione ha base a Quinto di Treviso, nella sede di Carretta, azienda di robotica e automazione industriale, fin dall’origine partner nell’avventura. Nel tempo si sono aggiunti soci e investitori, il progetto (partito in origine dagli scarti agroalimentari, per poi orientarsi sui fanghi) ha fatto incetta di premi (anche in Cina e a San Francisco) e ha beneficiato della collaborazione di enti come la Libera Università di Bolzano, il Politecnico di Milano, l’Enea. Cinque anni di lavoro, oltre 200 test, tre brevetti (più un quarto in procinto di essere depositato), il sistema dovrebbe iniziare la sperimentazione operativa nel depuratore di Bolzano tra maggio e giugno, per sbarcare sul mercato entro fine 2021. Hbi, però, non si ferma: «Stiamo lavorando per applicarlo anche ai fanghi industriali, da cui recuperare i metalli, e a quelli di conceria, per il cromo, oltre che ai rifiuti biodegradabili – annuncia Basso – E puntiamo ad aumentare la riduzione dello scarto al 95%, così da avvicinarci al rifiuto zero».