Con i suoi servizi su Striscia la Notizia ci ha spiegato come difenderci dalle spie sul telefono, cosa sono le fake news e come usare al meglio Whatsapp. Marco Camisani Calzolari però è anche molto altro: docente, scrittore, imprenditore e soprattutto divulgatore digitale. Con il chiodo fisso della comunicazione di massa: da anni infatti interviene sui maggiori media per raccontarci pregi, insidie e curiosità del web.
Camisani, come è iniziata la sua avventura nel mondo della tecnologia?
«È una passione che arriva da molto lontano. Parliamo all’incirca del 1979, quando ho iniziato a programmare con il primo Commodore VIC 20: i videogame non mi piacevano più di tanto, preferivo vedere come erano fatti i computer dentro. Li smontavo e rimontavo, cercando di fargli fare cose per cui non erano progettati. Ne ho rotti parecchi! Mi piace l’approccio “hacker”: sono sempre “sotto il tavolo”, come si dice in gergo, a smontare e attaccare fili».
Da smanettone a divulgatore tecnologico sul piccolo schermo: come le è venuta l’idea?
«Ho sempre avuto il pallino di trattare questi temi indirizzandoli al grande pubblico. Ho iniziato sulla radio con Claudio Cecchetto nel 1994, poi ho condotto un programma su La7 dove spiegavo come usare il computer, mischiando video divertenti a informazioni utili per il pubblico. Poi ho incontrato un visionario come Antonio Ricci, che mi ha detto: “Andiamo a fare il programma più visto della televisione italiana!” Pare abbia funzionato».
Oltre a informare il pubblico, voleva cambiare qualcosa nel modo in cui questi temi vengono trattati dai media?
«Spesso si parla di internet in modo sensazionalistico e se ne raccontano solo i casi più estremi, a volte anche facendo danni. Non bisogna però parlare di questo mondo solo quando c’è di mezzo il dark web o quando esce il nuovo finto “Elon Musk”. Bisogna invece spiegare i pericoli che si incontrano usando i social, quando si ricevono le email e le opportunità di lavoro che si possono trovare. Quello manca, e bisogna raccontarlo».
A che punto siamo con l’alfabetizzazione digitale?
«In realtà ci siamo già arrivati. Tutti, anche quelli meno digitali, diventano improvvisamente bravissimi quando hanno a che fare con uno smartphone. E sono gli stessi che fanno fatica ad accendere un computer. L’alfabetizzazione informatica non serve quando ci sono prodotti che possono essere usati senza bisogno di un manuale. L’informatica serve ai professionisti; oggi bisogna creare interfacce semplici da usare per tutti. Il problema è molto diffuso nella pubblica amministrazione e nelle aziende che offrono servizi essenziali: non hanno bisogno di renderli più accessibili, visto che tanto verranno usati comunque. Il problema inverso è quello di una società fatta di persone che vivono inchiodate al cellulare».
La dipendenza dalla tecnologia esiste?
«Purtroppo non solo esiste ma è anche alimentata dalle più grandi aziende che si occupano di social, il cui obiettivo è chiaramente renderci dipendenti da quel mondo. Più continuiamo a entrare, più lo guardiamo e più loro guadagnano. Fa parte del loro business, che ci piaccia o meno. Diverso il discorso per chi invece è un imprenditore digitale: in quel caso essere connessi 24 ore su 24 non è dipendenza, ma una necessità dettata dal lavoro».
Perché le persone online hanno spesso atteggiamenti molto diversi da quelli che terrebbero nella vita fuori da internet?
«Perché i media tradizionali, che sono quelli con cui arrivano le notizie ai meno “esperti” del mondo digitale, tendono a fare confusione. Vedo tutti i giorni servizi che parlano di necessità di registrarsi sui social, di identificare la propria identità… in realtà non esiste l’anonimato in rete. Anche i più grandi criminali del dark web sono stati beccati. Non chiamiamoli “mondo reale” e “mondo virtuale”, ma “mondo digitale” e “mondo fisico”. Internet non è “irreale”. Se ti pago in bitcoin ti ho pagato realmente, non virtualmente. È lo stesso motivo per cui i più anziani cadono facilmente preda delle truffe: perché in fondo lo considerano un mondo “virtuale”, e quindi irreale».
In che modo la tecnologia ci cambierà la vita da qui a 5 anni?
«Spenderemo molto di più sul digitale per prodotti che non esistono fisicamente. Pensiamo alle “skin”, i vestiti digitali con cui oggi si abbigliano i personaggi del videogame Fortnite: dietro c’è un grandissimo giro di soldi. Quando si diffonderà – e ormai ci siamo – la realtà aumentata, la normalità sarà comprarsi il vestito digitale firmato dal brand famoso. Come è successo per la musica, che ormai è quasi totalmente digitale, succederà anche per gli altri beni, specialmente quelli di lusso».
Cosa si aspetta da un futuro del genere?
«Saremo circondati da gente con i superpoteri. Con un’interfaccia per la realtà aumentata passi qualsiasi esame, ti laurei una volta al mese. C’è anche un rovescio oscuro però, perché a quel punto la tua intelligenza, il tuo sapere e il tuo essere saranno nelle mani di un’azienda. Chissà se un domani per continuare a pensare non dovremo pagare un abbonamento».