«La gente pensa che stiamo cercando la vita nello Spazio da sempre, ma questa è una sensazione, in realtà soltanto da poco abbiamo la tecnologia necessaria per farlo».
L'astrobiologa franco-americana, con origini italiane – la nonna era di Brescia – Nathalie A. Cabrol, direttore scientifico del Centro di ricerca Carl Sagan e del Seti Institute in California, nonché a capo di vari progetti di ricerca per la Nasa, non ha dubbi: trovare vita nello Spazio è solo questione di tempo. Quasi un destino. Specialista a livello mondiale nella ricerca di vita extraterrestre, Cabrol ha appena pubblicato il suo primo libro in italiano, L’alba di nuovi orizzonti. Alla ricerca della vita nell’universo, edito da Castelvecchi, in cui racconta la sua vita, ma anche ricerche e prospettive in materia di cosmo. E vita aliena.
La conversazione non può non partire dalla Domanda, con la maiuscola dei grandi interrogativi: siamo soli nell'universo?
«Stiamo ancora cercando. E se dal punto di vista teorico e filosofico lo facciamo pressoché da sempre, la vera ricerca nel sistema solare e al di fuori, con la tecnologia adeguata, è iniziata solo nel Ventesimo secolo. E anche qui, bisogna fare una distinzione. I primi lanci sono stati fatti per guardarsi intorno, diciamo. A dare davvero il via alla ricerca sono state le missioni Vikings su Marte negli Anni Settanta. E non si conosceva l'ambiente, dunque i risultati sono stati confusi. Abbiamo studiato clima, geologia e via dicendo per circa quarant'anni. Adesso cerchiamo la vita».
Come lo facciamo?
«Stiamo tentando di individuare condizioni di vivibilità, le abbiamo trovate in vari esopianeti e altri ne stiamo scoprendo. Situazioni adatte ci sono ed è così da miliardi di anni, dunque l'origine della vita è antica, molto vicina alla formazione dell'universo stesso».
«Se ci sono così tante civiltà evolute, perché non ne abbiamo ancora ricevuto le prove?» è il paradosso di Fermi.
«È un punto di vista antropocentrico, la vita sulla Terra è frutto di una coevoluzione di miliardi di anni, ogni vita può svilupparsi in modo diverso, adattandosi al pianeta in cui si trova. Ciò che siamo è il frutto di questo adattamento. Il paradosso di Fermi mette un punto, ma le possibili risposte sono molte. C'è il tema della distanza. E poi magari pensiamo di essere avanti in termini di sapere e tecnologia, ma non lo siamo ancora abbastanza. Siamo molto giovani in termini di civilizzazione tecnologica. La ricerca è iniziata nel 1961, quella sul cancro, per dare solo un'idea, molto prima».
Abbiamo qualche “prova” di altre vite?
«Nessuna. Noi cerchiamo tracce fisiche o chimiche, ma i risultati che abbiamo trovato finora non sono privi di ambiguità. Potrebbero essersi sviluppati nell'ambiente. Cerchiamo indicatori universali della vita ma, prima di tutto, bisogna capire quali potrebbero essere. Jeremy England studia non le origini della vita ma la sua natura, il processo che ne ha fatto la conseguenza di determinate condizioni termodinamiche. Questa prospettiva cambia la ricerca. Non si tratta più di individuare acqua o simili, bensì di indagare l'aspetto generativo dell'universo. È necessario continuare a cercare i parametri che conosciamo ma bisogna anche ampliare la visione».
In che modo?
«Nel mondo persone diverse in differenti ambiti, come biologia, chimica, fisica tradizionale e quantistica, conducono studi, sperando di trovare qualcosa che non possa essere stato creato dall'ambiente. L'ideale sarebbe qualcosa di artificiale o tecnico, un segno di civilizzazione».
Quali sono le realtà “candidate” alla vita?
«Su Marte ci sono le condizioni per la vita. Anche su Europa, Encelado, Titano. Poi sono da studiare le possibili condizioni di abitabilità su Giove e sulle nubi di Venere. E possibilità sono anche al di fuori del sistema solare».
Torniamo alla vita: si è formata sulla Terra o nello Spazio?
«L'idea antica era quella della cosiddetta panspermia, per cui la vita potrebbe essere stata portata nello Spazio da una cometa, che l'avrebbe di fatto seminata sui pianeti. Oggi questa teoria è stata rilanciata ma in modo diverso, guardando agli scontri di asteroidi quando i pianeti del sistema solare si stavano formando. Molti sono stati distrutti e vari elementi sono stati rilasciati nell'impatto. Ci sono stati scambi tra pianeti. Marte e Terra hanno ambienti simili, si può immaginare che elementi espulsi dal primo siano arrivati sul nostro pianeta».
I veri marziani potremmo essere noi?
«Esattamente. E magari cerchiamo la vita nello Spazio perché vogliamo tornare a casa».
Intanto, lei cerca elementi alieni sulla Terra.
«Sì, conduco ricerche negli altopiani delle Ande, dove le condizioni sono simili a quelle di Marte. Vado in questi luoghi per comprendere le condizioni ambientali e le dinamiche che vi si creano, cercando di scoprire quale tipo di vita potrebbe sopravvivere e, di conseguenza, quali segni si potrebbero trovare. Forse la vita è intorno a noi e potremmo non comprenderlo, potremmo non essere in grado di riconoscerla».
La risposta dunque è in un futuro lontano?
«Unire le teorie fisiche tradizionali e quelle quantistiche ci farà fare grandi passi avanti. La ricerca va avanti e già in una ventina di anni le cose potrebbero cambiare. Noi veniamo dall'universo, siamo “polvere di stelle” come si suole dire. Pensiamo che la coscienza sia nel cervello ma se, invece, fosse al di fuori di noi? Le risposte sulla vita arriveranno, ma non è detto che a fornire la soluzione sia l'astrobiologia, potrebbero essere altre scienze e discipline. Chissà, magari le neuroscienze».