Terremoti e vulcani «Abitiamo un mobile crocevia geologico. Non siamo in grado di prevedere i sismi»

C’è una geografia che non si vede ma si fa sentire.

Vibra sotto i piedi, modella i paesaggi, plasma la storia delle civiltà. È la geografia delle placche, delle faglie, del magma e delle profondità terrestri.

Con Fabio Florindo, geofisico italiano tra i più noti a livello globale e neo presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, facciamo un viaggio verso il cuore vivo del nostro pianeta, cercando di capire cosa ci rende una terra giovane inquieta.

Il geofisico Fabio Florindo, laurea in Scienze Geologiche e con un PhD in Geofisica conseguito presso l’Università di Southampton, è il nuovo presidente dell’Ingv

Presidente Florindo, perché sulla Terra ci sono aree con un’elevata concentrazione di vulcani e terremoti?

«La crosta terrestre, il guscio esterno del nostro pianeta, è suddiviso in quelle che si chiamano placche tettoniche o litosferiche, che si muovono continuamente in modo relativo tra loro. Sono come zattere su un mantello più fluido e profondo. Lì dove queste placche si incontrano, si scontrano o scorrono l’una accanto all’altra, nascono terremoti e vulcani. Alcune placche, come quella pacifica, sono immense; altre, come quella dei Caraibi o dell’Arabia, più contenute. Ma tutte partecipano a questo lento, inesorabile movimento. È lungo i bordi che si addensano i fenomeni sismici e vulcanici, segni evidenti di un pianeta ancora in divenire».

Perché alcuni terremoti raggiungono magnitudo elevatissime, come accaduto in Myanmar?

«Non tutti i confini tra placche sono uguali. Alcuni sono zone di estensione, come la dorsale atlantica, dove si forma nuova crosta terrestre. Qui i terremoti esistono, ma restano modesti. Le scosse più intense si producono quando una placca scivola sotto un’altra (subduzione) o quando due placche scorrono lateralmente (faglie trascorrenti). Lungo la faglia di Sant’Andrea in California, o in Myanmar, la crosta si muove in modo violento e repentino: spostamenti anche di 6-7 metri in pochi secondi. In quelle zone la terra trema non solo per geometria ma per energia accumulata. Il tipo di contatto tra le placche determina la forza del sisma».

Spostamenti così elevati nell’arco di ere geologiche cosa possono provocare?

«Territori totalmente differenti da quelli di milioni di anni fa. Troviamo i coralli sulle Alpi? Può sembrare paradossale: quelle che oggi sono vette alpine, un tempo remoto erano fondali marini. Grazie alla collisione tra la placca africana e quella euroasiatica, quei fondali si sono sollevati nel corso di milioni di anni. L’oceano Tetide, un antico bacino tropicale del periodo Triassico, circa 180 milioni di anni fa, ha lasciato tracce visibili nel cuore d’Europa, sepolte e poi sollevate dalla forza tettonica».

Qual è la situazione nel Mediterraneo?

«Il Mediterraneo è un laboratorio vivo e complesso. La grande dinamica è quella della placca africana che preme verso nord, scontrandosi con quella euroasiatica. Ma non è un urto lineare: è un puzzle irregolare di micro-placche, subduzioni e spinte oblique. Sotto la Sicilia, ad esempio, la placca africana sprofonda nel mantello terrestre, generando attività sismica profonda e vulcanismo nelle Eolie. L’Adriatico è un promontorio della placca africana che incide il margine europeo. La penisola italiana ruota lentamente verso l’Albania e ciò tra milioni di anni porterà alla chiusura del mar Adriatico, mentre nel Tirreno si aprirà un nuovo spazio oceanico. È una zona mobile, compressa e distesa. E l’Italia è proprio nel mezzo».

Per questo siamo un Paese sia sismico che vulcanico?

«Esatto: perché è un crocevia geologico. La nostra penisola si trova esattamente lungo la linea di contatto tra due grandi placche in collisione. Non si tratta di una casualità: terremoti ed eruzioni sono la diretta conseguenza della posizione che occupiamo sulla mappa geodinamica del pianeta».

A monitorare su questi eventi c’è l’Ingv.

«L’Ingv è il cuore operativo della sorveglianza sismica e vulcanica. Con circa 500 stazioni in tutta Italia, l’istituto controlla in tempo reale terremoti, vulcani e potenziali tsunami. Oltre alla sede centrale di Roma, ci sono centri operativi a Napoli (Vesuvio, Campi Flegrei, Ischia), Catania (Etna, Stromboli, Vulcano) e Palermo (monitoraggio geochimico). La rete è così capillare che consente di rilevare anche sismi all’estero, come quello in Myanmar. Ogni variazione è registrata, analizzata e condivisa con la Protezione Civile. Il sistema lavora senza sosta, giorno e notte, con persone sul campo e nelle sale operative».

L’Ingv compie 25 anni: come è cambiato e come cambierà?

«In 25 anni, l’istituto è cresciuto fino a contare oltre 1.200 ricercatori e tecnici. È diventato un punto di riferimento internazionale, non solo nella sismologia e nella vulcanologia, ma anche nello studio dei cambiamenti climatici. Le reti di sorveglianza si sono estese, la capacità di intervento è migliorata. Ma il futuro chiama a nuovi compiti: rafforzare la ricerca di base, attrarre giovani, aggiornare la carta di pericolosità sismica su cui si fondano le norme edilizie. E soprattutto, potenziare la comunicazione con i cittadini. In un tempo di sfiducia e allarmi diffusi, l’educazione geologica può fare la differenza. C’è poi la sfida dell’intelligenza artificiale: già ora si lavora per utilizzarla nell’analisi automatica dei dati in tempo reale. Non possiamo prevedere i terremoti, ma possiamo capire meglio dove siamo, cosa ci aspetta, e come costruire un rapporto più consapevole con la Terra sotto i nostri piedi».

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