Se l’esperimento del genetista di Harvard, George Church, dovesse avere successo, si aprirebbe un nuovo capitolo per l’ingegneria genetica, nuove frontiere ancora tutte da scoprire, con un impatto – si spera – sempre più positivo anche nella cura di patologie genetiche.
Ne abbiamo parlato con Paolo Vezzoni, genetista di lunga esperienza, ricercatore presso l’Istituto di Tecnologie Biomediche del CNR di Segrate, ed anche autore di pubblicazioni scientifiche e libri divulgativi, tra cui uno dal titolo eloquente, “Si può clonare un essere umano?”.
Vezzoni, oggi la tecnologia genetica potrebbe rendere possibile riportare in vita una specie animale estinta migliaia di anni fa. In che modo?
«Il genoma del mammut è stato sequenziato, quindi è conosciuto, sappiamo che non è molto diverso dall’elefante che ancora vive sulla Terra. Church sostiene che se si riuscissero a comprendere le differenze genetiche tra i due animali, allora si potrebbero apportare le modifiche nella cellula dell’elefante vivente, con il risultato di un animale molto simile al mammut di 4mila anni fa. La sua scommessa è trovare le differenze importanti, come il pelo lanoso, la resistenza al freddo dell’Artico, le zanne, che possano ripetersi nella cellula dell’elefante e clonarlo, anche se l’approccio che sta seguendo Church non è una vera e propria clonazione».
Ciò significa che esiste anche un secondo metodo?
«Sì, più conservativo. Infatti se dalle regioni ghiacciate che custodiscono nel permafrost i resti di animali estinti, e che con il cambiamento climatico si stanno sciogliendo, uscisse fuori un intero mammut, sarebbe possibile, che qualche cellula conservata dal gelo, sia rimasta viva ed a quel punto si potrebbe eseguire una clonazione diretta».
Significherebbe riprodurre un animale nel suo stato originario?
«Si, sarebbe completo di genoma con tutte le sue variazioni, mentre nell’approccio seguito da Church di tutte le variazioni esistenti nella sequenza genetica se ne riprodurrebbero circa un centinaio. Il problema della modifica di una caratteristica del genoma, è che una rischia di cambiarne delle altre. Invece se si interviene su una malattia genetica, si agisce su una sola caratteristica. Noi umani abbiamo un genoma di 3 miliardi di lettere, come lo scimpanzé; ma tra noi e lo scimpanzé c’è una differenza dell’1%, cioè di 30 milioni di lettere genetiche, anche se di queste, solo un migliaio rendono differenti uomo e scimmia, ma non sappiamo quali».
Se l’esperimento avesse successo, la stessa formula potrebbe ripetersi su altri animali estinti?
«Direi di sì, ma ci sono dei limiti. Nel caso di esemplari a rischio estinzione, ma ancora in vita, la soluzione più semplice è prendere le cellule e congelarle per una futura clonazione. Il limite per tutti i mammiferi, invece, è trovare una specie simile per la gravidanza ed il problema è che più è lontana nel tempo l’estinzione della specie e maggiori sono le correzioni da apportare al genoma. Questo significa che si possono riprodurre solo animali di cui esistono specie compatibili per la riproduzione».
Dal punto di vista della tutela della biodiversità, avrebbe senso?
«L’esperimento di Church è una prova di principio. Avrebbe un significato dimostrativo per la scienza, stabilirebbe una nuova tappa della conoscenza umana. Ricreare specie estinte poche migliaia di anni fa è possibile, invece nel caso di specie sparite da milioni di anni no, perché la tecnologia genetica consente di “leggere” la sequenza di un genoma fino a un centinaio di migliaia di anni, non oltre».
Tecnicamente quindi si potrebbe ricreare un essere umano dell’era primitiva?
«Sì, in teoria è possibile ma è un discorso che va contro ogni coscienza etica e nessuno lo farebbe mai. Si potrebbe riprodurre una cellula umana di Neanderthal perché le differenze importanti con l’Homo Sapiens sono poche ed alcuni geni in una percentuale tra 2 e 4% di Neanderthal le abbiamo anche noi».
Quindi un progresso enorme della tecnologia genetica. Quali sono le scommesse da vincere nel prossimo futuro?
«La correzione dei difetti genetici è al primo posto ed è fattibile, non ci sono limiti etici nella cura delle patologie a patto che si intervenga nella persona già nata e non sull’embrione, perché eseguendo una mutazione dannosa sull’embrione, questa si ripercuoterebbe anche sulle generazioni future di quella persona. Sono ottimista, credo che le malattie genetiche saranno curate in modo più sereno in futuro, ma si permetteranno solo cambiamenti che abbiano una rilevanza medica, a meno che il progresso dell’umanità non cambi in peggio, per permettere anche modifiche estetiche sui nascituri».
Sarà possibile anche contrastare l’inevitabilità dell’invecchiamento?
«L’età media è aumentata molto dopo la 2° Guerra, ma non in maniera genetica, perché 70 anni non sono sufficienti per il passo genetico, significa invece che c’è stato un importante cambiamento nelle condizioni di vita. È più facile migliorare la vecchiaia, cambiando lo stile di vita che geneticamente, il cui cambiamento cellulare è stato bilanciato in milioni di anni».