Crisi climatica, salvare il pianeta è ancora una missione possibile

Gaia soffre. Ma resiste. Ormai anche i più scettici si sono rasseganti alle cifre che da decenni raccontano gli effetti sul pianeta provocati dalle attività umane.

Certo non tutto è perduto (pensarlo ci è impossibile in questa vigilia della Giornata mondiale della Terra che cade sabato 22 aprile), ma alcune linee rosse sono state superate, e se la politica è chiamata ad agire per invertire le tendenze (e in parte ha cominciato a farlo), l’umanità tutta è ormai chiamata anche ad adattarsi a cambiamenti diventati inevitabili. «La sostenibilità di tutto il sistema è in relazione diretta con la capacità di risolvere i suoi problemi e la volontà di chi decide di migliorare collettivamente la situazione», dice a Parigi Jacob Durieux, archeologo al Laboratorio autonomo di antropologia e archeologia. Parte del nostro futuro è scritto nel famoso secondo volume del sesto rapporto del Giec, il gruppo di esperti intergovernativo sull’evoluzione del clima, creato nel 1988 dall’Organizzazione meteorologica mondiale e dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente.

Scopo del librone, che certifica le malefatte umane sulla biosfera, non è produrre nuove conoscenze scientifiche, ma fornire «una visione scientifica» dello stato attuale delle conoscenze. Che hanno almeno il pregio di essere chiare. Il riscaldamento del pianeta rallenta (grazie finalmente all’abbandono progressivo, molto progressivo e solo in certe parti della Terra, del carbone) ma prosegue. Se la temperatura di Gaia si alzasse di due gradi (cosa non esclusa) entro il 2100, fino al 18 per cento delle specie terrestri sono a rischio di estinzione. Secondo l’Indice del Pianeta Vivente (Living Planet Index, LPI) tra il 1970 e il 2018 la popolazione di vertebrati selvaggi terrestri è diminuita mediamente del 69 per cento. In America Latina le popolazioni di specie selvagge sono diminuite del 94 per cento. Uno sterminio di massa. Una migrazione animale e vegetale in fuga dal caldo, verso latitudini più elevate e acque più profonde, è già in corso da decenni: è stato calcolato che piante e animali si spostano verso i poli a una velocità di 59 chilometri ogni dieci anni. In questo momento, circa 3 miliardi e mezzo di persone (ovvero quasi la metà dell’umanità) vive in «contesti altamente vulnerabili al cambiamento climatico». Adattarsi significa anche rendere sostenibile la coabitazione sul pianeta. Siamo sempre di più, ma in teoria non troppi. Essere umano di più, essere umano di meno, dovremmo essere 9,7 miliardi nel 2050: abbiamo impiegato centinaia di migliaia di anni per superare la soglia del miliardo e solo due secoli per moltiplicare la cifra per sette. Secondo la maggior parte dei demografi, le cifre dell’aumento della popolazione terrestre in sé non sono preoccupanti e sono ormai in via di “stabilizzazione”. Sulla terra c’è spazio, e secondo Elise Naccarato di Oxfam France, «attualmente riusciamo a produrre abbastanza da nutrire una volta e mezzo tutta la popolazione mondiale». Il problema, come ci siamo ormai abituati a sentire ma non a risolvere, è lo straordinario aumento delle disuguaglianze e la ripartizione del tutto squilibrata delle risorse e dei comportamenti nocivi.

GLI SQUILIBRI

Secondo Ipbse, (la Piattaforma intergovernativa scientifica e politica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici) il 10 per cento delle popolazioni più ricche del pianeta sono responsabili del 36-45 per cento delle emissioni globali di gas a effetto serra. «Anche se dividessimo per dieci la popolazione terrestre, mantenendo queste abitudini di consumo da parte degli abitanti più ricchi non risolveremmo il problema delle risorse e dell’inquinamento», spiega Elise Naccarato. L’impatto ambientale dei più ricchi è 175 più importante del 10% degli abitanti più poveri. Se anche la terra si riscaldasse “soltanto” di 1,6 gradi entro il 2100, l’8% delle terre attualmente coltivabili non lo sarebbero più entro la fine del secolo. L’obiettivo degli accordi di Parigi di limitare l’aumento di 1,5 gradi a fine secolo pare ormai missione impossibile. Qualche spiraglio però si apre. Se il post-pandemia ha coinciso con una ripartenza delle emissioni in Paesi emergenti o «recentemente emersi» come Turchia (+11,2 per cento), Cina (+7,2) e Russia (+4,6), i Paesi Ocse sono riusciti a mantenere i comportamenti ecologicamente virtuosi anche senza lockdown, con una diminuzione post-Covid del 4,6 per cento. Altro segno positivo, l’accelerazione della transizione ecologica con un forte aumento delle rinnovabili nella produzione di energia elettrica (260 GW di capacità installate nel 2021, ovvero l’81% dell’elettricità). Se il carbone ha registrato aumenti in India e Cina anche a causa delle siccità che hanno ridotto le capacità idrauliche, «il declino dei fossili è innegabile – ha ammesso Antoine Gillod, direttore dell’Ong Climate Chance – Aumentano solo quando beneficiano di aiuti pubblici come in India e in Cina. Senza sostegno finanziario, il carbone non è più competitivo rispetto alle energie rinnovabili». In prima linea per la decarbonizzazione, in particolare in Europa, ci sono le città. Sono le metropoli gli enti a darsi gli obiettivi più ambiziosi sui due fronti dell’attenuazione dei gas a effetto serra, e dell’adattamento dei sistemi ai nuovi parametri non modificabili. Quasi tredicimila città, con un “peso” di un miliardo di abitanti, si sono fissate obiettivi più ambiziosi dei rispettivi stati. In Europa sono quasi 2mila le cooperative cittadine di energie rinnovabili. Buone pratiche emergono anche dal libro non solo nero del Giec. «Basta pensare, per quanto riguarda le politiche urbane, alle operazioni di vegetalizzazione, al potenziamento dei mezzi di trasporto collettivo, al traffico autorizzato ridotto al minimo indispensabile, con mezzi logistici molto efficaci. Dobbiamo lavorare su modi di vita urbani, in metropoli ad alta densità – spiega Gonéri Le Cozannet, geografo, esperto di Clima all’Ufficio geologico nazionale francese – quello che si deve fare, si può fare: un’agricoltura basata soprattutto sui vegetali, consumare meno carne in modo da limitare la pressione che l’agricoltura esercita sui suoli. È del tutto possibile coabitare in 10 miliardi sulla terra nel 2050, raggiungendo gli obiettivi di sviluppo sostenibile, ovvero riducendo la povertà, la fame e limitando i cambiamenti climatici».

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