I social non sono casa nostra, ma non sono neanche casa “loro”. Se vogliamo avere un approccio neutro e intellettualmente onesto all’enorme dibattito sul ruolo delle piattaforme e sui confini del loro potere discrezionale, dobbiamo iniziare a mettere in discussione un dogma: i social network non possono più essere trattati come soggetti privati. Continuare a definire in punta di diritto “private” piazze virtuali sulle quali interagiscono circa 4 miliardi di persone (più di metà del pianeta), con un potere economico e politico superiore a quello di molti Stati, è a dir poco anacronistico. La rete oggi è un crocevia di diritti, di confronto, di formazione del pensiero che ha un’influenza costante sull’opinione pubblica, e i social esercitano una “giurisdizione globale” sui loro utenti. Pertanto non possono essere più fotografati in una semplice contrapposizione pubblico-privato. Non è eretismo. È l’esigenza, non più procrastinabile, di inquadrare anche da un punto di vista giuridico una porzione della nostra realtà.
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LA DOMANDA
Perché al di là di Voltaire e Popper e dei troppi dibattiti in cui sono state tirate in ballo (spesso impropriamente) censura e libertà d’espressione, oggi la grande attenzione mediatica che si sta sollevando sul ruolo dei social network e, di conseguenza, sul nostro rapporto con le piattaforme digitali ha bisogno di risposte. Che il pretesto sia lo scandalo di Cambridge Analytica o il documentario The Social Dilemma, che il riflettore venga acceso dai pericoli per la privacy (le discussioni intorno a Immuni e al Cashback vi dicono niente?) o dalla decisione da parte di Twitter e Facebook di sospendere l’account di Trump, l’interrogativo di fondo non cambia: i social network sono il posto giusto a cui consegnare ogni aspetto della nostra vita? E se sì a quali condizioni? Curriculum, acquisti online, mail, conti correnti, idee, pensieri, foto, interazioni: ormai la nostra esistenza transita dal web. Al punto che la distinzione già fragile fra reale e virtuale non ha più ragione d’essere. Il virtuale ha conseguenze reali. E se proprio volessimo continuare a tenere distinti i due campi, se non altro per sentirci psicologicamente protetti, potremmo al massimo parlare di realtà materiale e realtà immateriale. Ma pur sempre realtà. Se ci fosse ancora qualche dubbio sul fatto che “reale è virtuale”, è la cronaca a venirci incontro dissipando ogni dubbio con il caso eclatante dell’irruzione online, da parte di un gruppo di nazi-hacker, alla presentazione di un libro sulla Shoah. Non una “semplice” azione di pirateria informatica, ma un vero e proprio raid antisemita, organizzato e violento, con tanto di urla, insulti, minacce, svastiche e immagini di Hitler, durante l’evento organizzato su Zoom per il libro La Generazione del Deserto della scrittrice Lia Tagliacozzo. Un episodio inquietante dopo due raid analoghi a novembre.
Ecco che allora il dibattito che pensavamo incentrato sulla libertà d’espressione, assume contorni più nitidi spostandosi sul piano opposto. E se il tema fosse proprio l’eccesso di libertà? Se l’idea da combattere fosse quella, malata e sinistra, che in rete vale tutto e che il web può essere utilizzato per dare sfogo non soltanto ai peggiori istinti, ma anche per incitare alla rivolta e alla violenza, per trovare nuovi palcoscenici, come nel caso delle teleconferenze, in cui seminare odio e fare propaganda fascista senza subire conseguenze? E se la rete che ci scheda e raccoglie ogni nostro dato, abbassasse terribilmente la guardia quando il controllo non riguarda più la profilazione ma l’hate speech e l’ordine pubblico? E se tutto, anche il ban di Trump, fosse figlio di meri calcoli politici ed economici? Perché quello che stride non è la chiusura, peraltro perfettamente in linea con i termini di servizio, dei profili dell’ex Presidente Usa, quanto la tolleranza rispetto a profili altrettanto borderline che violano quelle stesse regole. I tweet in cui Khamenei, attuale Guida Suprema dell’Iran, invoca la distruzione di Israele, per esempio, sono tutti ancora là. Controlli blandi e vuoti giuridici, discrezionalità e livelli di sicurezza non in linea con la mole di dati sensibili che transitano online, non sono più tollerabili. Ed è da qua che deve partire la nuova riflessione sul rapporto fra noi e la rete: il fatto che sia la casa di tutti non può trasformarla nella casa di nessuno.
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