Il rebus del telefono in ascolto

Una chiacchierata al telefono con un amico, qualche riferimento a un prodotto, magari fatto distrattamente.

E poi, appena conclusa la conversazione, la pubblicità di quello stesso prodotto, che arriva, improvvisa, sui social. La sensazione che il telefonino ci “ascolti” non è così rara, ma è solo suggestione o realtà? A riportare in primo piano il tema, a inizio mese, è stato l'affaire CMG (Cox Media Group), società americana specializzata in marketing digitale che in una pagina web (rapidamente rimossa) promuoveva un servizio, denominato “Active Listening”, capace di catturare le registrazioni ambientali degli smartphone. L’inchiesta, pubblicata dalla testata 404 Media, ha fatto il giro del mondo, solleticando la paura dello smartphone che “ci spia”. Ad alimentarla, anche il fatto che tra i partner di CMG figurassero nomi importanti come Amazon (che ha subito negato ogni coinvolgimento con la società), Google (che ha prontamente rimosso CMG dalla sua pagina dei partner) e Meta (che sta verificando se l’azienda abbia violato o meno i termini di servizio delle sue piattaforme). 

IL TEMA

C’era anche una certa sicurezza spavalda nel modo in cui la stessa CMG affermava che «è legale che i vostri dispositivi vi ascoltino. Quando scaricate una nuova app, per utilizzarla dovete sottoscrivere un contratto in cui spesso viene incluso l'Active Listening». Togliamoci subito il dubbio: possono farlo? Se nelle condizioni di utilizzo è chiaramente indicato che questo fantomatico servizio di “Active listening” sarà attivo durante l’utilizzo della app e noi accettiamo quelle condizioni, legalmente possono farlo. Tecnicamente? Dipende. «Scordiamoci che una app che ha superato il controllo qualità di Apple o Google possa scavalcare la nostra volontà di accendere o spegnere il microfono», spiega Stefano Fratepietro, esperto di cybersecurity e ceo di Tesla Consulting. «Da tantissimi anni sia iOs sia Android permettono agli utenti di concedere o meno l’autorizzazione all’uso di determinate componenti hardware del nostro telefono», compreso il microfono, la cui accensione peraltro, dopo gli ultimi aggiornamenti dei due ecosistemi mobile, è chiaramente indicata dalla presenza di un’icona colorata. Insomma, sulla carta abbiamo il potere di zittire ascolti indiscreti semplicemente rifiutando le condizioni d’uso della app. 
Ma che succede quando il software – o meglio, chi lo controlla – decide di scavalcare queste autorizzazioni? È quello che accade quando viene installato un malware sui nostri dispositivi, una tecnica utilizzata non solo dai cybercriminali ma anche dalla polizia giudiziaria per effettuare le intercettazioni. «Una volta – spiega Fratepietro – si andava a casa dell’indagato e si installava un trojan sul suo pc, adesso si fa quasi tutto online. Lui è convinto di scaricare il vero Whatsapp ma in realtà sta installando una versione creata apposta per intercettarlo».
Quindi sì, esiste la possibilità che un software possa ascoltarci a nostra insaputa. Resta da capire se un’agenzia di marketing abbia convenienza a muoversi su un terreno tanto insidioso, finora battuto solo dai chi voleva spiare e dalle forze dell’ordine. «Gli operatori del settore, almeno quelli che fanno marketing a un certo livello, già sapevano dell’esistenza di questa tecnologia. Un conto però è sapere che esiste, un conto è utilizzarla», afferma Fratepietro.

 
LA FIGURA PROFESSIONALE

Ma cosa fa esattamente un professionista del digital marketing? Nella bolla caotica di un web dove ormai non basta più confezionare prodotti di punta per farsi conoscere, analizza il mercato e struttura campagne mirate che sappiano stuzzicare e catturare gli appetiti degli utenti. Se fa bene il suo lavoro, alla fine riesce a migliorare il posizionamento dell’azienda sui motori di ricerca. Parliamo perciò di una figura professionale con cui tutti, dalla grande multinazionale alla piccola impresa che opera sul web, presto o tardi sono costretti a confrontarsi. Nell’immaginario collettivo quella figura viene ancora associata al professionista spietato e cinico, sulla scia del Don Draper di Mad Men. Ma spesso la realtà, almeno qui in Italia, è ben diversa. «Noi come agenzia non abbiamo la possibilità di creare dati, ci appoggiamo a quelli che sono già sul mercato o che ci fornisce il cliente», spiega Niccolò Canella di Canella Business, agenzia pubblicitaria attiva dal 2013, oggi partner commerciale di Meta, Google e Sky. «A seconda della piattaforma, che si tratti di Meta, TikTok o Google, abbiamo diverse possibilità di targeting (individuazione di un gruppo di consumatori all’interno di un mercato di riferimento, ndr) che viene effettuato sulla base dei comportamenti che gli utenti tengono sul web. Sono i proprietari delle piattaforme a garantirci che la profilazione sia fatta in modo corretto e trasparente». Che succede se si scopre che non è così? «Abbandoniamo immediatamente quel partner». 
Un approccio condiviso anche da Lorenzo Viscanti, ceo di Mapendo, azienda bolognese che opera esclusivamente sul mercato americano, dove ogni giorno 20 milioni di persone visualizzano annunci gestiti dalla loro tecnologia di ottimizzazione delle pubblicità. «Ci hanno chiesto tempo fa di lavorare con una app, ma abbiamo interrotto i rapporti quando ci siamo accorti che quella app copiava i nostri sms e li inviava a un server cinese. Quindi sì, qualcuno si intromette in maniera aggressiva nei nostri smartphone, ma escludo che a farlo siano le agenzie pubblicitarie». Perché? «Semplicemente perché non abbiamo bisogno di ascoltare gli utenti, ci basta mettere gli algoritmi al lavoro sulle loro ricerche Google o sulle loro interazioni social. Studiando due minuti di utilizzo di Instagram – spiega Viscanti – riusciamo a capire perfettamente se ti interessa una borsa di pelle, un viaggio a Bali o un sex toy. Il potere dell’algoritmo oggi è talmente forte che spiare i microfoni per ore e ore non solo non è necessario ma è anche antieconomico». 

IL RISVOLTO

Tutto quello che facciamo online insomma è pubblico per l’algoritmo, a prescindere dalle nostre impostazioni di privacy, che possono arginare ma non interrompere del tutto il flusso della profilazione. Cosa succede però quando il nostro target non ha nessuna presenza online? «Dal punto di vista pubblicitario non ci interessa, perché non ha nessun valore commerciale. È vero – ammette Viscanti – c’è una piccola parte della popolazione che risulta invisibile all’algoritmo, ma il restante 95% viene coperto con una precisione chirurgica». Il punto della discussione allora non è più se un’agenzia di marketing è stata in grado – ed è ancora tutto da verificare – di ascoltare i nostri microfoni, ma quanta parte di privacy abbiamo ceduto spontaneamente alle piattaforme nel corso degli anni. E perché ci sconvolga tanto l’ascolto silenzioso delle nostre conversazioni quando al web abbiamo già raccontato tutto di noi.

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