Un fenomeno con il sorriso si è preso i social: Khaby Lame. In silenzio, mimica e basta. Una faccia che è un meme, perché – lo predisse Elon Musk – i meme comanderanno il mondo. E agli algoritmi, quindi alle persone, i meme piacciono. Alessandro Riggio guida Iron Corporation, fa il social media manager da molti anni ormai e gestisce oltre 200 creator digitali e account con 1,3 miliardi di followers sulle varie piattaforme ma sopratutto durante una diretta Twitch, in una domenica mattina dei giorni di lockdown decise di rispondere a una delle decine di richieste di contatto di un senegal-torinese che si chiama Khaby Lame. Non lo sapeva ancora che era il meme dell’anno, quello a cui si chiede di sfilare tutte le sere sul red carpet di Venezia, a cui anche Usain Bolt chiede – nel box Ferrari di Monza – di farsi una foto o un video da tiktokare o instagrammare in fretta. Lo intuiva, però: parliamo con Alessandro mentre nella sede milanese della sua company che vuole quotare in Borsa a New York «non appena avremo raggiunto almeno i 3,5 miliardi di followers» si divide una piadina con il suo amico primatista europeo di Tik Tok e autore di uno storico sorpasso tutto italiano al mito Ferragni. Ragazzo di Soverato in Calabria (“la Miami italiana”), Riggio è cresciuto tra sogni di Hollywood e Ninjalitics e gli altri misuratori di engagement e traffico sulla rete e i social. Ha decine di analisti che misurano, ma si fida soprattutto del suo istinto di casting director. E della cara vecchia stampa.
Riggio, cominciamo da qui? La stampa, anche quella scritta, e il suo peso sui social.
«Senza la stampa – scritta o digitale – fenomeni come quelli di Khaby o Gianluca Vacchi, con cui ho collaborato per un anno e mezzo non avrebbero acquisito lo status che hanno ora. Il rimbalzo di un articolo ispirato dai social può essere fondamentale per le strategie che devono essere e restare sempre di nicchia: si parte sempre da lì, anche se hai 120 milioni di follower su Tik Tok. Lavoriamo con avvocati, studi professionali, aziende: tutti cerchiamo una nicchia da cui partire».
Collaborate con Alessandro Del Piero e il rimbalzo del primo video con Khaby è stato enorme. Per tutti e due.
«Io sono un tifoso juventino sfegatato, mi chiamo Alessandro e sono nato lo stesso giorno di novembre di Alex. Una notte alle 4 mi squilla il cellulare: non potevo crederci, Del Piero che mi chiama da Los Angeles e che mi chiede di collaborare con lui… Io quando lui cambiava scarpe, mi andavo a comprare il nuovo modello… Tra collaborare con Neymar e Alex non avrei alcun dubbio. Ma proprio l’esempio del calcio o delle medaglie d’oro olimpiche è utile per far capire ai creator che il contenuto è tutto: il social va cavalcato quando le cose vanno bene, quando hai segnato un gol o vinto un titolo. E lo stesso vale per gli attori o i cantanti che magari ti chiedono il miracolo di risollevare i social dopo averli snobbati. Ma i casting, nel cinema, la tv o anche nella musica oggi sono figli dei numeri. E questo vale tra le nuove generazioni anche per tutti gli opinion-maker».
Lei da dove arriva, Riggio?
«Nasco casting director, ho studiato cinema in America: ma la passione ce l’ho sempre avuta. La mia tesina della maturità era sul cinema. Ho conosciuto due tra i fondatori di Instagram quando stavano per cedere a Zuckerberg. Dieci anni fa, un’era geologica, forse due… Avevo 40 mila follower: non c’erano fake like, eserciti di follower fasulli. Studiavo cinema e algoritmi, giocavo con follow e unfollow. I social media manager non esistevano, lo facevamo ma non lo sapevamo. Oggi ci si improvvisa e si cerca di fare gli squali: anche con Khaby hanno provato all’inizio. Al cellulare rispondevo io, dopo un po’ hanno smesso».
Il nome della nuova società e qualche post indirizzano verso Iron Man.
«Ho l’armatura originale e persino ricevuto in regalo un pc brandizzato. Ma il soprannome me lo sono guadagnato per come ho resistito all’hackeraggio di oltre 300 profili durante il lockdown. Lavoro con Facebook e Instagram, con il loro aiuto non mi sono piegato. Attacchi che venivano da Russia, Kazhakistan, Estremo Oriente. Incidenti del mestiere».
Com’è composto il suo team?
«Gruppo ristretto di collaboratori, ora sono solo quindici, sono arrivato ad avere 70 persone. Ci sono i creatori, cui chiedo di pensare solo ai contenuti, alcuni di loro hanno una decina di account da tenere sotto controllo. Ogni post è importante. Ai numeri penso io e gli analisti: settimana su settimana, l’obiettivo è avere un segno verde di crescita».
Con chi si fa fatica a lavorare?
«Con i rapper. Vogliono fare tutto di testa loro. Più facile lavorare con i brand che li sponsorizzano».
Come recluta i creator?
«Se c’è un account che mi interessa o viceversa, comincio a fare un’analisi approfondita, una investigazione vera e propria. A me consegnano la loro privacy, la loro vita social e non: devo diventare il migliore amico. Il social è il nuovo curriculum vitae. E Instagram per le nuove generazioni è una fonte persino superiore a Google e Wikipedia: se non mi credete, osservate i vostri figli».
Khaby ora vola, ma domani?
«Khaby deve studiare. Ora i premi Oscar chiedono un post con lui. Incredibile la forza espressiva applicata ai social di questo ragazzo nato in Senegal e cresciuto tra Settimo Torinese e Chivasso. Ma a lui e a tutti chiedo sempre di pensare ad un altro lavoro, ad un dopo: quella dell’influencer per me non è una professione, ma una condizione transitoria. Lui, per me, può diventare un nuovo Eddie Murphy: lo cercano Hollywood, lo vuole Bollywood. E la serialità italiana».
Suo padre lavora con lei.
«Ho avuto un’adolescenza complicata: andò via di casa, sono cresciuto senza un padre. Ora lavora con me: ferita ricucita grazie al web».
Torniamo a quelle dirette Twitch e all’incontro con Khaby.
«In piena pandemia giocavo live ai videogames con i calciatori della Juve, parlavo di bot: 1200 commenti al minuto. Un venerdì sera lui spammava, ma non me ne accorsi: i commenti scorrono troppo veloci, ha riprovato una domenica mattina quando i ragazzini dormono. Il nome mi piaceva. Aveva mille follower e voleva crescere: oggi su Instagram e Tik Tok siamo a oltre 160 milioni. Riemerse il talento da casting director: m’ha colpito ed eccoci qui a lavorare insieme. Khaby è umilissimo e questo lo favorisce. Ma con me nella struttura non ci sono solo ragazzi: gli azionisti si fidano perché con me ho un direttore finanziario di 70 anni, con esperienze in Fiat, Lamborghini e Gft come Clemente Signoroni. E allo stesso tempo lavoro con Arat Hosseini, il bimbo-calciatore più famoso del mondo che ha Messi tra i follower (a 8 anni è nell’academy del Liverpool, ndr)».
Da Arat a Vacchi.
«Siamo rimasti amici: insieme abbiamo realizzato il famoso video con l’ippopotamo nel giardino (intervennero i carabinieri, a cose fatte: il web corre veloce, ndr). E’ un grande dj, come “pincha” la musica lui sui social non ce n’è. Al mondo. Ora fa il papà e ha creato un altro bel personaggio. Il manager segue il ciclo di vita: se tua moglie è incinta cambia la comunicazione; se hai problemi in famiglia devi cambiare approccio. La bilancia social deve restare in equilibrio».
Ferragni appena sorpassata su Tik Tok da Khaby cos’è per voi: rivale o ispirazione?
«Un esempio magistrale di marketing: i like non sono euro. Intorno a te, se hai successo, devi costruire un brand. Lei è stata la prima e penso sia un esempio da seguire. Puoi anche avere 10 milioni di follower, ma se non riesci a concretizzare quei numeri servono a poco».
Khaby è un meme vivente.
«Arriva a tutti e ovunque come un mimo, come una star del cinema muto. Nel 2016 Musk disse che i meme comanderanno il mondo: lo ringrazio di quella illuminazione. E per i suoi meme sui dodge coin: l’ho seguito sul tema delle monete virtuali e mi ha fatto guadagnare un bel po’. Con i suoi tweet cambia il mercato».
Ferragni, Khaby, Vacchi: successi italiani nell’anno delle vittorie azzurre.
«Aggiungi allo sport i Maneskin. Pensa che Logan Paul, il primo youtuber al mondo (quello della sfida con il puglie Mayweather, ndr) cerca Lame… Che non trema mai, solo con Bolt, il suo mito vero, l’ho visto emozionato».
Una cosa che un creator non deve fare.
«Guardare i dati sul numero dei follower: pensi ai post; ai numeri ci penso io».
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