«Abbi pazienza e aspetta ancora pochi mesi. Appena l’agenzia federale ci darà il permesso, inizieremo la sperimentazione sugli umani». In una risposta di posta elettronica di qualche settimana fa destinata ad una persona paralizzata da anni che si offriva come cavia, Elon Musk ha rivelato il passaggio storico che la sua azienda Neuralink sta per affrontare, solo quattro anni dopo la sua creazione. I tecnici della società, e i robot-chirurghi da loro disegnati, sono pronti ad impiantare in via definitiva in un cervello umano un chip che lo colleghi ad un computer. Sarà il primo passo di quello che filosofi e sociologi hanno già definito “transumanismo”, l’evoluzione della razza umana verso una forma ibrida, nella quale la tecnologia digitale che oggi ci circonda entrerà a far parte del nostro corpo, ci aiuterà a farlo funzionare meglio, e auspicabilmente a curarci da alcune delle disfunzioni per le quali fino ad ora non conosciamo rimedi.
L’OSMOSI
Musk è stato molto preoccupato negli anni passati dal progresso che ha visto compiere nel campo dell’Intelligenza Artificiale. Lo sviluppo di macchine pensanti, già più efficienti per molti versi rispetto al cervello umano e sempre più vicine al suo funzionamento, gli ha suggerito la visione distopica di un futuro nel quale i processori elettronici potrebbero prendere coscienza di una loro superiorità razziale rispetto agli umani; decidere misure correttive nei nostri confronti, e forse schiavizzarci. L’imprenditore sud africano-statunitense ha lanciato allarmi arcani e poco articolati; poi ha fatto debuttare Neuralink. Come altri pensatori del nostro tempo, si è convinto che è inutile dibattere la questione del primato tra l’uomo e la macchina. Più opportuno è accettare l’idea che il fenomeno dell’osmosi è già in corso d’opera, facilitarla per impedire che l’umanità diventi obsoleta e irrilevante, e assicurare che l’uomo resti in possesso degli strumenti di controllo. Il chip prodotto dalla Neuralink non è una novità assoluta. Nel 2016 gli scienziati statunitensi che fanno parte del progetto BrainGate hanno iniziato a impiantare nella corteccia motoria di alcuni pazienti affetti da paralisi, elettrodi attaccati a piccoli quadrati di silicone. Le persone prive di controllo sui propri arti sono così in grado di visualizzare un certo movimento, e il collegamento elettronico permette a degli attuatori di realizzarlo. In questo modo ad esempio i pazienti posti di fronte ad una tastiera riescono a fissare i tasti ad uno ad uno, e a comporre un messaggio scritto, che poi può essere inviato. L’inserimento richiedeva però un’operazione a cervello aperto, e l’innesto era dotato di una batteria esterna i cui fili uscivano dal cranio, con il rischio di infezioni. Anche il sistema della Neuralink aveva ancora un simile disegno quando è stato mostrato la prima volta la scorsa estate, inserito nel cervello di un maialino.
L’ULTIMO ANNUNCIO
All’inizio di febbraio Musk ha rivelato il nuovo disegno, questa volta ospitato nel cranio di una scimmia. Il chip è ora della grandezza di una moneta, la batteria è integrata e dopo l’installazione va ricaricata per induzione, senza più ammennicoli esterni. L’inserzione sarà fatta da un chirurgo-robot in ambiente ambulatoriale nel corso di un’operazione ad altissima precisione, che dura meno di un’ora. Musk assicura che la scimmia sta bene, è felice, ed è in grado di giocare una sorta di ping pong elettronico con l’assistenza del computer. È bene chiarire che siamo lontani anni luce dall’idea di una macchina che prende il posto del cervello. Quest’ultimo a differenza della prima non ha un portale unico che dia l’accesso al processore, ma è fatto di decine di aree, ognuna delle quali sovraintende a funzioni diverse. Occorrerebbe tappezzare il cranio con altrettanti microprocessori per monitorare l’intera attività, e anche se ci riuscissimo, saremmo appena agli albori della ricerca. Il chip della Neurolink per il momento si limita a registrare stimoli in arrivo ai neuroni, e offre quindi una lettura dei collegamenti che permettono al corpo di eseguire un impulso cerebrale, ad esempio quello che ordina il movimento degli arti. Manca ancora una buona parte di conoscenza medica che permetta di ricostruire in forma ingegneristica la connessione mancante in chi è stato vittima di una paralisi; manca persino la certezza che questa operazione sia possibile.
Leggi anche:
Dal Gif designer al moderatore di Clubhouse, i nuovi professionisti del digital
Francesco De Carlo: «Io, condannato all'isolamento nella prigione delle celle del foglio Excel»
I PALETTI
Al momento siamo solo in grado, come fa il reparto Darpa del Pentagono, di utilizzare l’estrema sensibilità degli squali per rilevare la presenza di navi nemiche o di mine, tramite chip impiantati nel loro cervello. L’Università di Melbourn sta studiando l’inserimento tramite l’arteria giugulare, di stent che ospitano chip da far giungere nel cervello di persone paralizzate, e aiutarle a realizzare arti protesici digitali. Ma è proprio lo stato infantile della ricerca che spinge un intellettuale come Youval Noha Harari, che si è interessato a fondo del rapporto tra l’uomo e il computer, a insistere sull’urgenza dell’apertura di un dibattito immediato sullo sviluppo futuro della tecnologia. Se vogliamo evitare lo scenario apocalittico del cyborg, l’uomo cibernetico prospettato dalla fantascienza, dall’Uomo terminale di Michael Crichton a The Matrix, occorre, dice Harari, che biologi, chimici e ingegneri elettronici comincino oggi a discutere con i filosofi, gli eticisti, gli storici, e gli avvocati, i paletti e le regole che governeranno il progredire della ricerca. La macchina non arriverà mai a generare autonomamente sentimenti e moti d’animo, ma potrà decidere in base alla conoscenza e all’applicazione di algoritmi. La conoscenza di un computer è fatta dai dati raccolti e collegati tra loro. Oggi si parla di dati sulle nostre abitudini e sullo stile di vita, raccolti dalle aziende per proporci acquisti. Domani avremo a che fare con macchine che conosceranno le nostre capacità fisiche, intellettuali ed emotive, e potranno predire la deperibilità dei nostri corpi. È necessario stabilire fin d’ora chi e come avrà accesso a quei dati, quali algoritmi saranno disegnati per utilizzarli, e quanta partecipazione sarà garantita all’individuo nelle decisioni che lo riguardano.
© RIPRODUZIONE RISERVATA