Sulla luna, di nuovo. E non per lasciare qualche orma, ma “case”. Ci porterà Artemis, sorella di Apollo, la dea lunare che dà il nome al programma spaziale. «Si torna sul nostro satellite con il proposito di stabilire una presenza duratura e sostenibile, mettendo allo stesso tempo le basi per poter fare un giorno un salto in avanti: un’impronta su Marte», spiega Ersilia Vaudo, astrofisica, originaria di Gaeta e da 30 anni all’ESA tra Parigi e gli Usa. Dal 2017 è chief diversity officer e da qualche mese svolge la funzione supplementare di special advisor on strategic evolution al direttore degli Affari Europei e Internazionali a Parigi. Si torna a mettere piede sulla luna.
In che modo il programma Artemis ci avvicina all’obiettivo di “abitarla”?
«Con il programma Artemis, voluto dalla Nasa con la collaborazione di Esa, Jaxa e Canadian Space Agency (Csa), i prossimi astronauti e astronaute dovrebbero “allunare” sul nostro satellite, entro il 2025, oltre 50 anni dopo l’ultima missione del programma Apollo del 1972. Si ritorna spinti dalla prospettiva di nuove scoperte scientifiche, di un forte ritorno economico e di ispirare una nuova generazione di esploratori. Un elemento centrale della missione è il Lunar Gateway, una stazione intorno alla Luna, avamposto da cui si prepareranno le mission, robotiche prima e con astronauti poi, che apriranno la strada per nuove attività umane di lunga durata sulla luna».
Quanto tempo ci vorrà per raggiungere il traguardo?
«Dopo la missione Artemis III, i piani prevedono la conduzione di operazioni attorno e sulla luna e la messa a punto di infrastrutture, sistemi e missioni robotiche al fine di rendere possibile la presenza duratura sulla superficie lunare. Per fare questo, verrà installato un campo base Artemis al polo sud della Luna. Gli astronauti vi resteranno inizialmente uno o due mesi; poi, nuovi strumenti, piattaforme e infrastrutture (protezioni per evitare le radiazioni, aree di atterraggio apposite, sistemi per lo smaltimento delle scorie) si aggiungeranno in maniera graduale, così da consentire soggiorni più lunghi. Ma per questo occorrerà probabilmente aspettare qualche decina di anni».
E le prime case sulla luna?
«Un elemento fondamentale per permettere la presenza umana sulla luna sarà l’espansione dei sistemi abitativi e di supporto del Gateway, la prossima stazione spaziale frutto della collaborazione tra Nasa, Esa, Jaxa, Roscosmos e Csa. L’Esa, in particolare, vi contribuirà con la costruzione di due moduli, I-hab che fornirà spazio abitabile agli astronauti, e Esprit, costituito da un sistema per la trasmissione di dati, comunicazioni video e voce, da un modulo per il rifornimento e da una finestra simile alla cupola della ISS. Sarebbe molto costoso portare “mattoni” sulla Luna per costruire le basi lunari e l’utilizzo di risorse in-situ diventerà sempre più importante con il moltiplicarsi di missioni lunghe. La stampa 3D consentirà lo sfruttamento di materiali locali come il regolite, generando meno rifiuti, fornendo la capacità di ottimizzare le geometrie e creando strutture e strumenti forti ma leggeri».
Quali tecnologie messe a punto in questo programma potranno poi essere utilizzate per arrivare a Marte?
«Nei prossimi 10 anni il programma Artemis permetterà di mettere a punto sistemi e operazioni nello spazio profondo prima di lanciarsi nel viaggio verso il pianeta rosso. Le missioni Artemis consentiranno ai ricercatori di studiare l’impatto delle radiazioni cosmiche, dell’assenza di gravità e di una grande distanza dalla Terra sulla salute e sulle performance degli astronauti. Le tute spaziali di nuova generazione xEmu (exploration Extravehicular mobility unit) che saranno indossate dai prossimi astronauti sulla luna saranno ulteriormente perfezionate per adattarsi alle particolarità dell’ambiente di Marte, aggiungendo ad esempio rivestimenti per tenere i corpi al caldo durante l’inverno marziano e prevenire il surriscaldamento in estate. I piani prevedono poi di testare sulla Luna una nuova tecnologia a fissione nucleare che garantirà energia in modo continuativo anche su Marte, rifornendo in modo stabile gli insediamenti umani».
Un’astronauta toccherà la luna. Lo spazio sta diventando più inclusivo?
«Sicuramente, e anche la narrativa è cambiata. Le esplorazioni, ripartite con grande ambizione, non sono più guidate dall’idea di conquista e di colonizzazione ma si ispirano anche al cuore dei valori europei come la conoscenza, l’investimento per le generazioni future, l’inclusione. Guardano alla possibilità di trovare risposte alle grandi sfide: climate change, pace, povertà ed energia. Nelle precedenti selezioni per astronauti la presenza femminile era del 16%, adesso una su 4 è donna. L’inclusione non è solo di genere, stiamo lavorando a un progetto di fattibilità per portare anche disabili nello spazio. Noi come Esa, con 22 Paesi membri e molti altri associati, sappiamo che mettere insieme prospettive, culture e competenze diverse permette di fare ciò che nessun Paese potrebbe fare da solo. Abbiamo la diversità nel nostro Dna e conosciamo la ricchezza che rappresenta».
Lei è la curatrice della prossima Triennale di Milano “Unknown Unknowns”. Quanto è grande la parte di universo che non conosciamo?
«Tutta la materia che vediamo e che emette della luce rappresenta solo il 5% di quello che noi sappiamo esserci nell’universo. C’è un 95%, probabilmente materia ed energia oscura, che si nasconde. Facciamo parte di un universo che rimane largamente sconosciuto. Potrebbe avere ulteriori dimensioni, essere uno tra tanti universi, bolle in una sorta di champagne cosmico. Studiare l’universo rappresenta l’opportunità di uscire fuori dalla zona di conforto, quella delineata dalla nostra esperienza, il mondo dei nostri cinque sensi. Fuori, il mondo fisico, pur non accessibile alla nostra percezione, rimane altrettanto reale. Il tempo viene tirato giù dalla gravità come fosse una mela o sostanze particolari, grazie ad effetti quantici, possono perdere la terza dimensione con un cambiamento di temperatura».
Lei ha detto che la parità di genere passa anche per la fisica e la matematica e si batte da anni per incoraggiare le ragazze a seguire studi Stem.
«Ho scelto fisica anche se amavo nello stesso modo la filosofia perché mi interessava entrare in una dimensione che mi prescindeva, una realtà che esiste indipendentemente da noi e ci dà un accesso allo sconosciuto. Mi piaceva idea di spostare il mio baricentro, bello piazzato dentro di me con i miei dubbi esistenziali e le grandi domande, e mettermi in una dimensione più distante. Sentire di essere una scintilla, un istante in un universo indifferente mi dava un senso di potere e libertà. Le materie stem rappresentano la straordinaria occasione di occupare spazi dove si immagina e si rende possibile il futuro. E di contribuire alle grande sfide di domani. Sono queste competenze negli anni a venire faranno la differenza, e non e’ possibile pensare ad un futuro che non includa i talenti di tutti».