La Silicon Valley è uno dei luoghi più pacifici del pianeta.
Eppure proprio lì, tra i vialetti curati e gli ampi spazi che circondano quell’immensa astronave piena di verde nata dalla filosofia zen di Steve Jobs che è la sede di Apple, o ancora, poco distante, nel sorridente campus di Facebook circondato da campi d’albicocche e vigneti, dove i nuovi genietti dell’informatica girano in t-shirt ed è tutto un entusiastico “cool”, ecco, proprio lì si sta consumando una guerra feroce. Una guerra che potrebbe cambiare la nostra quotidianità nel profondo, proprio come il prosperare delle grandi aziende hi-tech l’ha già rivoluzionata. Una guerra che fino a poco tempo fa poteva dirsi fredda ma che la scorsa settimana, con la comunicazione degli ultimi risultati trimestrali delle società, è diventata caldissima: Meta, il gruppo che detiene Facebook, Instagram e WhatsApp, ha perso in un giorno il 26% a Wall Street, bruciando circa 250 miliardi di dollari in quello che è stato uno dei peggiori crolli mai visti nella Borsa americana.
IL CONTROLLO
Ma, per continuare con la metafora militare, il bombardamento che ha piegato con insolita violenza il titolo dell’azienda di Menlo Park era iniziato qualche mese prima. Anzi, con più precisione era cominciato il 26 aprile 2021, quando Apple ha rilasciato l’aggiornamento del suo sistema operativo iOS 14.5. L’azienda capitanata da Tim Cook quel giorno ha infatti introdotto sui dispositivi con la mela la funzione “App Tracking Transparency” (“Att”), che dà la possibilità agli utenti di decidere se concedere o meno alle app di terze parti (Facebook & Co comprese) l’autorizzazione a eseguire il tracciamento delle proprie attività. Un sistema che va a colpire direttamente al cuore il business di Meta, per la quale la profilazione degli utenti è fondamentale per vendere pubblicità, e quindi per sopravvivere. La società americana di analisi Flurry ha stimato che l’85% degli utenti nel mondo ha cliccato sul pulsante “Non tracciare”, e la percentuale negli Stati Uniti sale al 94%. Un risultato che ha colpito lo stesso Cook, che fin da tempi non sospetti è stato fiero sostenitore di un principio, ereditato dal fondatore di Apple, guru e amico Steve Jobs: «Gli individui devono avere il controllo dei propri dati e di come questi vengono usati». Quindi «l’Att non è un provvedimento contro un’azienda, serve per difendere questo principio». Fatto sta che questa mossa non solo ha fatto male a Meta, ma ha anche indirettamente favorito un’altra grande protagonista della Silicon Valley: la fetta di pubblicità persa da Facebook e Instagram si è infatti riversata su Google e sui suoi servizi. E ora non è più così assurdo pensare che tra i due “blocchi” contrapposti, Mountain View abbia scelto di schierarsi dalla parte di Apple. Sono ormai anni che Cook lancia frecciate al collega Zuckerberg, che in alcuni casi sono apparse come vere e proprie dichiarazioni di guerra (pur senza citare direttamente Facebook). «Quando un servizio online è gratuito», ha detto in un’intervista nel 2014, «vuol dire che chi lo utilizza non è il cliente. È il prodotto». Una filosofia opposta a quella di Apple, come il ceo della Mela non ha mai perso occasione di sottolineare: «Noi vendiamo dei prodotti, degli strumenti per permettere alle persone di fare ciò di cui hanno bisogno». Tradotto: la tecnologia è un mezzo, non un fine. Perciò non sorprende che Apple abbia fatto della difesa della privacy la propria bandiera. La formula in fondo è semplice: gli utenti pagano – a carissimo prezzo – dei dispositivi, e in cambio possono dormire sonni tranquilli. L’ecosistema chiuso di Apple è infatti sì una concezione della tecnologia molto elitaria, ma d’altra parte è garanzia, oltre che di efficienza, anche di rispetto della privacy. Ovviamente questo discorso non vale per la Cina, dove Apple è stata costretta, pur di continuare a fare affari, ad accettare che il governo avesse accesso ai dati degli utenti (ma la Cina è un mercato talmente irrinunciabile per le aziende hi-tech che un po’ tutte, Google compresa, sono dovute scendere a compromessi). Comunque è proprio in questo che la formula dei social network differisce in modo sostanziale da quella delle altre aziende hi-tech, risvegliando il fastidio di queste ultime: Meta non vende dei prodotti, offre dei servizi che sulla carta sono gratuiti, ma che non sono gratuiti affatto, visto che la moneta di scambio sono i dati personali (da qualcuno giustamente definiti “il petrolio” della società digitale). È questo che rende il business dei social poco trasparente: il fatto che non è chiaro come le aziende utilizzino e facciano fruttare economicamente i dati che le persone, spesso inconsapevolmente, forniscono loro. Ed è proprio questo tasto dolente che ha spinto Zuckerberg a quell’uscita sciagurata, la scorsa settimana, in cui ha velatamente minacciato l’Unione europea di chiudere Facebook e Instagram nel caso in cui non gli fosse stato più permesso di trasferire i dati degli utenti europei nei suoi server statunitensi. Una minaccia a cui sono seguite una serie di risposte durissime da parte dell’Ue e che sono costate alla società un altro tonfo a Wall Street. Zuckerberg si ritrova insomma in una posizione meno difendibile rispetto a quella di Cook, ma ciò non gli ha impedito comunque di rispondere alle accuse mosse dal ceo di Apple con altre accuse. Apple, secondo il fondatore di Facebook, attraverso i suoi dispositivi non solo può controllare le attività dei propri utenti, ma avendo un ecosistema chiuso può alterare il mercato delle app decidendo chi escludere e chi favorire. Non a caso il gigante dei videogiochi Epic Games ha citato in giudizio l’azienda di Cupertino, sostenendo che quest’ultima abusa di posizione dominante tramite il suo App Store. Una questione che sta creando non pochi problemi alla Mela, che però per tutta risposta ha messo l’accento su un ulteriore problema che preoccupa parecchio Meta, e che negli scorsi giorni ha colpito anche la piattaforma streaming audio Spotify. Problema che si riassume in una fatidica domanda: le piattaforme sono responsabili dei contenuti che vengono caricati, al pari di una testata giornalistica? La sezione 230 del Communications Decency Act, approvato negli Usa nel 1996, specifica che nessun provider internet può essere considerato un editore. Ma quella legislazione è stata concepita quando i social network non esistevano, e sono in molti (ovviamente Cook in primis) che ne chiedono una revisione. Per le piattaforme sarebbe il colpo del ko, visto che come dimostra il dilagare delle fake news e dell’odio online, i social non sono in grado di vigilare sui contenuti che vengono immessi.
IL SETTORE
La guerra insomma imperversa, ma potrebbe allargarsi ancora. Perché mentre Meta crollava in Borsa, nel frattempo a Seattle, nel quartier generale di Amazon, si festeggiava: nell’ultimo trimestre la società ha raddoppiato l’utile. Quello dell’e-commerce è un settore nel quale Amazon è praticamente egemone, ma che fa gola a tanti. Meta in primis, che ora sta puntando tutto sulla sua ultima carta, che potrebbe donarle nuova vita: il metaverso, il nuovo mondo virtuale creato su misura per i suoi social, con regole nuove e un mercato tutto da conquistare. In quella realtà parallela teorizzata da Zuckerberg si potrà fare tutto: divertirsi, chiacchierare, e ovviamente anche fare acquisti. E tutto, ogni aspetto delle nostre vite, passerà da Menlo Park. Una prospettiva che se molte persone considerano inquietante, le altre aziende potrebbero non gradire affatto. È qui che si giocherà la battaglia decisiva: se Meta riuscirà a convincere abbastanza investitori della bontà della sua idea, potrà dominare la Silicon Valley, ma se a prevalere dovesse essere il “blocco” guidato da Apple, allora per Zuckerberg potrebbe essere una Waterloo. Che di virtuale avrebbe ben poco.