Nucleare, Pietro Barabaschi e il progetto Iter: «Anche nel Tokamak già prodotta energia da fusione, ma in quantità ancora modeste»

Lo slogan recita che è «l’energia del sole messa in bottiglia», ma a Pietro Barabaschi gli slogan piacciono poco.

In modo particolare se riguardano la fusione nucleare, cui ha dedicato gli studi e la carriera di ingegnere. Nato a Milano, 56 anni, da settembre dirige il Tokamak Iter (International thermonuclear experimental reactor) a Saint Paul lez Durance, in Provenza, la più imponente installazione sperimentale di fusione nucleare del mondo. Obiettivo: produrre un’energia praticamente infinita e pulita. Il paragone è presto fatto: un grammo di isotopi di idrogeno, i protagonisti della fusione, può generare la stessa quantità di energia di 11 tonnellate di carbone. La costruzione del Tokamak è cominciata nel 2010, il reattore a confinamento magnetico di forma toroidale capace di contenere temperature fino a 150 milioni di gradi, dovrebbe arrivare a generare una potenza di plasma dieci volte maggiore di quanta ne assorbirà. Il calendario iniziale prevedeva un’ignizione del primo plasma a cavallo del 2025. Un planning «poco realistico», dice però l’ingegnere milanese

L'ingegner Pietro Barabaschi

Barabaschi, un pragmatismo che però fa sognare: e se davvero riuscissimo a imbottigliare l’energia del sole? E perché la fusione è tanto diversa dalla fissione delle centrali nucleari che conosciamo?

«Nella fissione l’energia si libera quando si dividono elementi pesanti, nella fusione quando si uniscono elementi leggeri, per esempio due protoni: è quello che accade nel sole, reazioni tra nuclei dell’idrogeno. La fissione è stata scoperta e implementata con la famosa pila atomica di Fermi ed è un processo relativamente più facile da ottenere della fusione. Nel sole si realizza grazie a condizioni molto particolari: un’enorme pressione gravitazionale e un’altissima temperatura, circa 15 milioni di gradi. Nel nucleo del sole troviamo un gas compresso ionizzato, il cosiddetto plasma, che è una specie di zuppa di nuclei e elettroni non legati tra loro. L’enorme pressione fa sì che la densità della materia sia altissima: circa 150 volte quella dell’acqua».

Tokamak Iter cerca dunque di “imbottigliare” queste condizioni sulla terra.

«Abbiamo trovato due nuclei più facili da fondere, quelli di deuterio e di trizio: se si avvicinano a sufficienza, possono fondersi e formare un atomo di elio, liberando abbastanza energia per continuare la reazione. Nel Tokamak lavoriamo per usare un gas rarefatto con una densità simile a quella dell’aria (quindi non il plasma ad altissimo peso specifico del sole) dobbiamo però riscaldarlo a 150 milioni di gradi (ben 10 volte la temperatura presente nel cuore del sole). In queste condizioni iniziano ad avvenire reazioni di fusione nucleare, sorgente di grandi quantità di energia».

Finora quanti esempi di fusione nucleare terrestre abbiamo?

«Sulla Terra siamo già riusciti a creare reazioni di fusione, ma per ora non siamo mai riusciti a creare una reazione controllata, continua, e con un fattore di amplificazione importante. Poche settimane fa c’è stato un annuncio del Lawrence Livermore National Laboratory in California, dove hanno usato un altro processo e hanno prodotto energia equivalente a… un piatto di spaghetti. Scherzi a parte, è stato un evento molto significativo. Ma è giusto riportare tutto alle giuste proporzioni per capire la via che ci resta da percorrere. Anche nel Tokamak è stata già prodotta energia da fusione, ma si tratta di quantità di energia modeste».

Si è parlato di problemi tecnici del Tokamak Iter e di calendario da rivedere.

«Sono stato nominato a settembre. Ho identificato dei problemi di perdite di gas in uno schermo termico e di qualità dimensionale nella camera a vuoto. Li sistemeremo: sono riparazioni possibili, ma provocheranno ritardi. Il planning che era stato previsto era comunque a mio avviso troppo ottimista. Ora ci sarà una fase di revisione tecnica e della scala dei tempi. Non posso annunciare date precise, ma posso dire che faremo buon uso del tempo, non solo per risolvere i problemi, ma anche per esempio per arricchire il contenuto scientifico della prima fase operativa».

Parliamo di decenni?

«Nel complesso di tutto il progetto direi di sì. E comunque Iter è una macchina sperimentale, il suo obiettivo non è produrre energia elettrica, non sarà un reattore operativo, ma un prototipo. Quando saremo pronti? La risposta più onesta che posso dare è: non lo so. C’è chi dice 30, 50 anni. Quando si esplorano territori sconosciuti, si scoprono nuovi problemi ma si scoprono anche nuove opportunità. La nostra civiltà deve affrontare un problema serio che riguarda l’inquinamento da anidride carbonica della nostra atmosfera. La dipendenza dai combustibili fossili è un problema di cui siamo tutti consapevoli. È giusto investire nella ricerca, sulla fusione e anche sulle altre fonti alternative di energia ma anche nel nucleare che conosciamo».

Il nucleare che conosciamo non comporta troppi rischi?

«Intanto il nucleare non produce CO2. E poi non si possono paragonare fissione e fusione: una funziona in vasta scala ora, l’altra non ancora. Solo quando avremo messo a punto la tecnologia e trovato i materiali adatti potremo esprimerci. Potenzialmente i vantaggi ci sono, è vero. All’interno di un reattore a fusione occorre una quantità di combustibile infinitamente minore: non tonnellate, ma grammi. Secondo, non indifferente, vantaggio: si può avere a disposizione una quantità di combustibile praticamente illimitato, perché il deuterio si può estrarre dall’acqua e il trizio si produce bombardando con dei neutroni il litio presente nella parte del reattore, quindi si può autogenerare. Ma occorre un equilibrio fra energie rinnovabili, sistemi di immagazzinamento dell’energia e disponibilità di una sorgente di energia di base (sole e vento funzionano solo se ci sono vento o sole). Come energia di base per ora abbiamo due possibilità: o i combustibili fossili o l’energia nuclear.

Tokamak Iter è frutto di una vasta collaborazione internazionale, 35 Paesi lavorano insieme. Per produrre energia dalla fusione nucleare ci vorrà tempo, ma un primo obiettivo è raggiunto.

«Iter è una collaborazione a livello mondiale. Più della metà della popolazione della Terra è rappresentata nel progetto. E si lavora in pace. Potrà sembrare un retorico o anacronistico insegnamento, ma per quest’obiettivo scienziati e ingegneri mettono da parte le differenze culturali e creano una cultura unica. Potremmo dire che la fusione, è anche una fusione tra popoli».

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